Credits

"Marco Cinque sa che l’anima oggi è stata costretta in una profonda soggettivazione, in cui l’abisso dell’io si è manifestato in ogni essere umano - consciamente e inconsciamente - sia come disperazione che come sfida. (...) A volte, le sue poesie sembrano essere state scritte da un filo d’erba o da un fiocco di neve che cade su un lago tranquillo, in una specie di omaggio Cinquesco alla grandezza dell’anonimato del movimento stesso."
Jack Hirschman (dalla prefazione di “Percezioni”)

"È un libro bellissimo, generoso e commovente. Ci aiuta a capire che l’esecuzione capitale è un crimine peggiore dei delitti che vuol punire, perché non solo uccide ma insegna a uccidere. Ci aiuta a capire che fino a quando la pena di morte esisterà, anche in un solo angolo della Terra, l’umanità non sarà uscita dalla barbarie."
Luigi Pintor (dalla prefazione di “Giustizia da morire”)

"Le poesie sui condannati a morte ci fanno sentire l’orrore di questa infame vendetta di stato, l’orrore di queste persone, alcune che sono state anche feroci assassini, altre innocenti, che aspettano per anni il giorno in cui il boia verrà a prenderli, l’orrore della morte come spettacolo per i parenti delle vittime che consumano la loro vendetta. Si può immaginare una ferocia maggiore?"
Margherita Hack (dalla prefazione di “Poeti da morire”)

"Nel volume che vi accingete a leggere, accadrà come per “Il libro dell’inquietudine” di Pessoa, o “Il codice dell’anima” di James Hillman, che alcuni di voi lo terranno sul comodino, segnato, perché ognuno di voi capirà, sentirà, farà proprio ogni suo verso, il vostro: aprendo qualsivoglia pagina vi troverete parte di voi, così da sentirvi legati, anche senza conoscerlo."
Beppe Costa (dalla prefazione di “Sintesi”)

"Quando ti dice che la pace si deve seminare, capisci che le sue spalle sono pronte a tutto, anche a reggere i macigni più grossi."
Igiaba Scego (da “Internazionale”)

"La sensibilità è un dono che non tocca tutti e non poteva essere diversamente. Se così non fosse, il mio caro amico Marco sarebbe una persona triste perché la sua vita non avrebbe un senso; esiste in lui questo incontrollabile desiderio di donare il proprio amore, contribuendo così a costruire un mondo migliore... ecco la sensibilità. Grazie in anticipo, amico Marco, per tutto quel che di bello hai fatto e che ancora farai nel percorso della tua esistenza."
Marcos Vinicius (da “Civiltà Cannibali”)

"Rimando il lettore che vuole conoscere le molteplici attività di Marco Cinque alla contro copertina di questo libro: mi limito a ricordare che è autore di opere di poesia, pittore, fotografo, musicista, promotore di iniziative culturali e artistiche, ma anche e soprattutto impegnato verso gli ‘oppressi’. Si può ben dire perciò, con il poeta palestinese Muin Bsisu, che se “I ricchi hanno Dio e la Polizia, i poveri hanno le stelle e i poeti”, in Marco Cinque i “poveri” hanno il loro poeta."
Wasim Dahmash (dall'introduzione di "Dalla parte del torto")

"La sua azione è una costante scelta vitale e consapevolmente politica, nel senso alto di questo termine. Egli sa bene che ogni scelta individuale contro l’ingiustizia e in favore della vita, non può farsi che a rischio della propria."
Antonino Caponnetto (dalla postfazione di “Parola Nuda”)

"Le parole semplici, dirette, comprensibili, fanno accedere al profondo svelandone la complessità. E le parole sacre riacquistano senso e significato nella loro stessa pronuncia: pace, umanità, armonia, esistenza. Ma la loro pronuncia significa anche risalirne duramente ogni violazione, ogni mancanza, ogni violenza. E rivendicare il peso dell’esistenza di ogni soggetto e di ogni luogo di oltraggio all’umanità. Qui sono nominati i profughi, i carcerati, gli immigrati, i popoli nativi, tutti i diversi e gli esclusi. Qui si scava nella vergogna dei centri di accoglienza, nel dolore della Palestina, nell’ingiustizia di ogni pena. Vorremmo che questa lista si fermasse, scomparisse. Le poesie di Marco Cinque lavorano per questo. La sua strada è anche la nostra. Da sempre."
Alberto Masala (da “Civiltà Cannibali”)

"Scrivere è difficile. Le ragioni sono tante, oggettive e note. Scrivere poesia, essere poeti lo è ancora di più. Perché la parola dei poeti è arma di verità, miccia dirompente, rivoluzionaria e scrivere per i poeti è imperativo, esortazione etica; ma se a causa di quelle note ragioni questa facoltà viene tradita, svilita, involgarita il difficile diventa impossibile. Allora, cosa deve fare il poeta? Seguire la corrente? Compiacersi della fatuità? Tacere? E se i poeti tacciono, chi cambierà il mondo? Di questi interrogativi non sembra preoccuparsi troppo Marco Cinque. Per lui la vera rivoluzione sta nell’«assumersi responsabilità nella piccola, consueta vita quotidiana». Lui sente il bisogno di comunicare, di dire e lo fa. Con tutti i mezzi, non solo quelli tradizionali della poesia. (...) Non sono quelli di Marco Cinque versi rassicuranti. Né potrebbero esserlo perché parlano di solitudine e abbandoni e danno voce ai profughi, ai carcerati, agli esclusi, ai sottomessi. Lui guarda col cuore e parla, scrive, suona, fotografa. Le sue ballate sono fatte per essere dette a più voci, cantate in coro, nelle piazze."
Maria Jatosti (da Le Monde Diplomatique)

"Quella di Marco Cinque è dunque una posia che si presenta nella forma di un’offerta felice e concreta d’intrattenimento, nell’attimo del momento della trasmissione, nella ricerca continua di una sede nella quale trovare identità e dove inventare la comunità “civile”. Deve essere una necessità acquisita nella contiguità quotidiana e febbrile con la sorte degli sconfitti, urbani (cives) e mondiali, gli indigeni di ogni inferno; e conquistata nei colloqui a distanza con i condannati a morte e le vittime della storia. Dentro e fuori le prigioni nelle quali siamo costretti."
Tommaso Di Francesco (dalla prefazione di “Civiltà Cannibali”)

"Le poesie di Marco Cinque hanno la stessa devastante potenza di un’“Origine del mondo” di Courbet e la stessa sinuosa bellezza di un nudo di Modigliani: si presentano a noi come il suo autore (mai artefice!) le ha generate, in tutta la loro candida essenza, ma esse recano pur sempre brandelli del loro autentico travaglio, il “sangue” del loro stesso parto. È così che si incarnano nel testo: pure, dure, vibranti. La loro presenza si fa vagito che echeggia tra le pagine."
Alessandra Bava (dall’introduzione di “Parola nuda”)

"La dichiarazione di poetica da cui nascono queste poesie combacia perfettamente con una dichiarazione di guerra all’autoreferenziale, al linguaggio che si fa inganno e menzogna dei potenti. A tanta rabbia tuttavia corrisponde un sentimento altrettanto forte e viscerale quale appunto l’amore per la parola che è ‘nuda’, quindi innocente. Parola come unità di misura dell’umano."
Olga Campofreda (dall’introduzione di “Parola nuda”)

(Sul libro “Civiltà Cannibali”) "Parole semplici come note, pronte a disporsi in armonie discrete ma mai pacificate; silenzi che di tanto in tanto cedono il passo al suono profondo dei tamburi, ritmi ancestrali che mai degenerano nella rabbia e che pure parlano di guerre e violenze, morti e mai raddrizzate ingiustizie. Spazi scarnificati nei quali nessun superfluo è ammesso, infiniti e molteplici presenti nei quali consumare la gioia di un attimo che non è mai fuggente. C’è tutto questo nelle poesie di Marco Cinque. (Sul libro “Pena di morte? No grazie!”) Un Nativo d’America così rispose ad alcune persone che volevano impegnarsi in suo sostegno: «Se siete venuti per aiutarmi, allora vi ringrazio, ma preferisco fare da solo. Se invece siete convinti che la vostra libertà dipenda anche dalla mia, allora possiamo cominciare a lavorare insieme». A Marco Cinque un Wa-Do - un «grazie dal centro del cuore» - per averci indicato quest’ultima strada."
Iaia Vantaggiato (da “Le Monde Diplomatique”)

"I versi di Cinque feriscono a fondo (lo si vede nelle facce di chi ascolta) e vanno anche ascoltati oltre che letti, perché sulla pagina non ti aggrediscono i ritmi della voce e i colpi sul tamburo, il loro salire e poi spezzarsi."
Daniele Barbieri (da “Liberazione”)

"Nelle pagine che hai letto, per diciotto volte le tue mani hanno stretto le mie, svelando occhi, coprendoli, premendo la testa, chiudendo la bocca, evidenziando i segni sulla pelle e sui fogli. Ti prego, quando finisci, prima di andar via, pulisci le sbarre. Non è facile distinguere la tua pelle dalla pelle delle cose; per sette volte dei tuoi occhi, il filo dei miei occhi, scavalcando il mondo, ha toccato il pianto. Eppure se ti scappa un’emozione, ti rassicuro: non guardo; per tre volte le tue labbra mi hanno voltato le spalle, tanto ci sono i muri che ascoltano."
Enrichetta Vilella (dalla postfazione di “FinePenaMai”)

"Marco Cinque .. l’inesausta avventura di una scrittura antica e asciutta rigorosa e profonda .. un viaggio che radente e fulmineo cattura con urgenza e rigore di parte i segni di questi tempi devastanti e inquieti .. oltre un silenzio indicibile .. oltre la desertificazione della memoria .. nell’insonnia roboante del mondo culturale .. una scrittura che non finisce .. .. .."
Sandro Sardella (dalla prefazione di “rEsistiAmo”)

“Per noi è stata un’occasione entusiasmante, completamente diversa dalle nostre solite lezioni scolastiche perché abbiamo avuto la possibilità di incontrare uno scrittore e musicista, ma soprattutto un uomo appassionato del suo lavoro. Speriamo che questa nostra amicizia appena iniziata con Marco possa continuare nel tempo per farci vivere altre emozioni e per farci conoscere ancora le sue grandi esperienze.”
Alunne e alunni dell’Istituto Comprensivo Via Ormea

“Ecco perché queste poesie, tra l’altro splendidamente tradotte in inglese da Alessandra Bava, queste cronache, questi insight, che Marco Cinque ci offre, non parlano solo di vita, di salvezza fisica, di accoglienza, ma, purtroppo, anche di morte, di abbandono, di una tremenda ingiustizia egoista, della nostra indifferenza.”
Raffaele K. Salinari (da “Il Manifesto”)

“Questa non è una giornata normale in carcere, ma può servire da esempio. Da esempio coraggioso: se vengono utilizzati tanti agenti di polizia penitenziaria per prelevare uomini e donne dalle loro celle, portarli nell’auditorum, assistere allo spettacolo su di loro e con loro, riportarli nelle celle nel giro di un’ora e mezza, non ne è valsa la pena, per agenti e detenuti? La cosa più difficile è iniziare, mettersi le scarpe alla mattina, piuttosto che restare in un letto che non potrà lenire i nostri dolori”.
Ristretti Orizzonti (dopo il reading “Finepenamai” nel carcere di Pesaro)